È stata una serata intensa quella dell’11 dicembre all’oratorio di San Martino. Come ha spiegato il Vicario don Clemente, l’idea di ospitare don Domenico Ricca, cappellano del carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino, fa capo alle iniziative legate all’Anno giubilare messe in campo dal Consiglio pastorale: declinare le opere di misericordia in momenti di riflessione e di approfondimento.
Quella di don Mecô, com’è conosciuto don Ricca, è la storia di un salesiano che a Valdocco, il primo oratorio torinese aperto da san Giovanni Bosco, aiutava «don Vincenzo Marrone nella pastorale del Centro giovanile, non tanto dell’oratorio, di cui si occupava soprattutto don Luigi Gariglio con la catechesi, ma facendo il ‘cane da cortile’, che nella prassi salesiana si chiama ‘assistenza’, decisiva per il nostro stile di preti: ci ha formato tanto, ci ha insegnato a stare con i ragazzi».Nel 1979 viene destinato al Ferrante Aporti: «Conoscevo solo il luogo, ho varcato la soglia con tanto tremore, lo devo dire, con in testa la battuta di mia mamma: “Ma proprio in carcere dovevi andare, proprio lì?”. In seguito dirà ancora: “Ma a te non ti faranno mai parroco?”. Per lei fare il parroco era il simbolo del successo per un prete. Ma ha avuto ragione: al massimo sono stato viceparroco o collaboratore parrocchiale…».
Tutte queste cose sono contenute nel libro “Il cortile dietro le sbarre: il mio oratorio al Ferrante Aporti”, un lungo racconto realizzato dalla giornalista Marina Lomunno, anche lei presente alla serata con don Mecô. Un volume che si chiude con un’intervista alle suore di clausura del Cottolengo. Un rovesciamento del punto di vista, ha detto Lomunno, per spiegare come da dietro le grate di un monastero si possa vivere in piena libertà.
Tanta la gente in sala e tante le domande a don Mecô, che negli oltre trent’anni di servizio al “Ferrante Aporti” ha avvicinato molti protagonisti dei delitti più efferati, i ‘ragazzi grigi’ come li definisce, tra i quali Erika De Nardo, l’omicida di Novi Ligure di cui è stato anche tutore. Su tutti questi casi ha però mantenuto l’impegno di un rigoroso riserbo, per non tradire il reciproco patto di fiducia.
L’ambiente del carcere per don Mecô è analogo all’oratorio perché, ha sintetizzato nella conclusione «in fondo non facciamo che attualizzare il sistema preventivo di don Bosco anche per coloro che hanno già perso alcuni spazi di vita, hanno bruciato alcune opportunità, perché sono convinto che a tutti rimane ancora una carta da giocare, quella che don Bosco vedeva in ogni ragazzo».
Stefano Di Battista